Colpisce il silenzio di molte attiviste femministe occidentali sulla questione Gaza. Le donne di Gaza e della Cisgiordania, oltre ad essere esposte alle violenze legate al genocidio e all’occupazione, subiscono ulteriori abusi legati al genere. Violenze sessuali, mancanza di prodotti legati all’igiene mestruale e del diritto ad un parto sicuro sono questioni che vengono spesso ignorate. Per quale motivo?
Per capire questo fenomeno, dobbiamo analizzare la storia tra civiltà occidentali e civiltà islamiche. Questi due “blocchi” si sono scontrati già dal settimo secolo, durante la nascita della religione islamica. Vi sono difatti manoscritti di monaci mediorientali che guardavano con preoccupazione alla nascita di una nuova religione monoteista basata sulle scritture bibliche.
Il conflitto si è ulteriormente esacerbato all’epoca delle crociate, quando la necessità di finanziare la guerra e di reclutare soldati, creò il discorso del nemico “saraceno”.
La distanza tra civiltà occidentali e islamiche diventò ancora più evidente durante l’epoca coloniale. Le potenze occidentali dovettero trovare il modo di giustificare l’occupazione di altri Paesi, l’assoggettare della popolazione e lo sfruttamento delle risorse. Si creò il discorso dell’arabo violento, intrinsecamente legato al conflitto. Lo stesso argomento si ritrova nei discorsi della moderna politica per giustificare le invasioni di Paesi terzi in nome della “democrazia” e la visione che essa possa essere portata unicamente dagli occidentali poiché i musulmani non sarebbero naturalmente capaci di uscire dai sistemi di regime.
Proprio questa idea dei paesi occidentali come salvatori è proiettata sul discorso sulla condizione femminile. Nonostante fin dall’inizio della civiltà islamica sia possibile trovare figure di donne statiste, guerriere, teologhe e, più avanti, intellettuali e scienziate, queste figure vengono sistematicamente ignorate, per preferire l’immagine della donna sottomessa e brutalizzata.
Insieme a questa immagine si diffonde la sessualizzazione e la feticizzazione della donna velata. Essa è vista come docile e sensuale e, già nella narrativa coloniale, oggetto della fantasia dell’uomo occidentale pronto a salvarla. La donna che indossa l’hijab (o ancora meglio il niqab) viene quindi oggettivizzata, vista come incapace di indipendenza e bisognosa di essere salvata.
Nella realtà possiamo però trovare numerosi movimenti femministi che rivendicano la differenza tra religione musulmana e cultura patriarcale. Teologhe e femministe islamiche creano reti di educazione per creare uguaglianza di genere senza staccarsi dalla visione religiosa ortodossa.
I movimenti femministi mediorientali vengono però notati solo qualora si distacchino completamente dal discorso religioso per abbracciare uno stile di vita occidentale. Questo è il caso di movimenti come quello delle proteste in Iran, legate alla morte di Jina Emini. Questa solidarietà spesso ignora il fenomeno coloniale dietro la violenza, difatti a Jina era stato imposto il nome iraniano di Mahsa Amini (che spesso è riportato dai media occidentali come unico nome, se non confuso con il bianchissimo Masha) e che l’accanimento sulle regole islamiche in Iran fosse spesso imposto esclusivamente alle minoranze etniche. Così come la narrazione occidentale ha spesso ignorato, volutamente e non, l’ideale della rivoluzione femminista iraniana che chiede che le donne possano vestirsi come vogliono, che sia in maglietta o in chador.
Una simile solidarietà si vede spesso proiettata verso il movimento di liberazione curdo legato alla figura di Ocalan del quale si esalta la bellezza delle donne soldato, viste come libere.
La donna mediorientale è quindi vista come oggetto di simpatia solo qualora si adatti al concetto di libertà e di femminismo nati in seno alla visione occidentale e bianca.
In quest’ottica, le soldatesse israeliane che ballano su tik tok , bianche, forti, sexy e indipendenti con un lavoro da “uomini”, sono un modello di forza e indipendenza ammirevole e “vicino”.
Dall’altro lato invece vi sono le donne di Gaza, erroneamente descritte come tutte musulmane e tutte velate. Molte di loro sono scappate con pochi abiti, solitamente quelli da preghiera che consentono praticità dei movimenti mantenendo uno stile di abbigliamento modesto. Nei video e nelle foto si vedono donne scure, vestite con abiti larghi e polverosi, ben lontane dall’ideale erotico occidentale dell’odalisca sexy, rinchiusa in un harem, da salvare.
Ma queste donne sono anche fiere dei loro ideali e valori.
Sono donne che non inneggiano alla cultura occidentale ma sono sicure e fiere della loro. Non sono le donne con cui è facile empatizzare. Anzi, sono scomode perché non sempre ne rispecchiano gli ideali, richiedono uno sforzo di comprensione e il superamento di alcune teorie femministe finora elaborate e che non contemplano una vera intersezionalità.
Come al tempo della lotta per i diritti civili, con l’esclusione dele femministe nere dai circoli femministi bianchi, così ora le donne di Gaza e le femministe musulmane, vengono nascoste e taciute.
A quel tempo accogliere le femministe nere significava riconoscere lo svantaggio sociale della donna nera rispetto alla donna bianca, e allo stesso modo oggi dovremmo impegnarci ad accogliere le donne musulmane, perché la loro esclusione consente di chiudere gli occhi rispetto a quei privilegi di chi viene da culture che si sono arricchite grazie allo sfruttamento coloniale e che ci allontanano da un ottenimento dei diritti che sia davvero universale.
Martina Zuliani – Gruppo Attivista
LETTURE PER APPROFONDIRE:
- Edward W. Said “Orientalismo”
- Ruba Salih “Musulmane rivelate. Donne, Islam, modernità”
- Renata Pepicelli “Femminismo islamico”
- Fatema Mernissi “L’harem e l’occidente”
TESTI IN ALTRE LINGUE:
- Mariam Khan “It’s not about the burqa”
- Fatema Mernissi “Beyond the veil. Male-female dynamics in Muslim society”
- Ana Frank “Feminism and Islam. Turkish women between the Orient and the West”
- Nahid Shahalim “We are still here. Afghan women on courage, freedom, and the fight to be heard”
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